Wednesday, 25 August 2010

RECENSIONE: "MOVING ON THE EDGES OF THINGS" - THIS WILL DESTROY YOU


La frase "il post-rock è tutto uguale", da un pò di tempo a questa parte, è ormai sulla bocca di tutti: band, critici, semplici ascoltatori ecc.
Il motivo di ciò, a mio avviso, è molto semplice.
Nell'ultima decade abbiamo contribuito ed assistito alla nascita (e in alcuni casi anche alla consacrazione) di artisti provenienti da tutto il mondo (Islanda, Svezia, Virginia, Texas, Scozia, Malesia, Italia ecc.). Tale partecipazione, naturalmente, ha fornito una quantità inverosimile di materiale da ascoltare e di conseguenza ci siamo ritrovati tra le mani centinaia e centinaia di tracce aventi più o meno la stessa struttura: pad ambientali, leitmotiv chitarristici dal sapore malinconico, elementi noise, distorsioni esplososive nella fase finale dei pezzi (spesso molto lunghi) ecc.
Il fatto che tali strutture dopo un pò possono facilmente annoiare, però, non è poi così scontato.
Il vero motivo dell'attuale accanimento critico nei confronti del post-rock, a mio modo di vedere, risiede proprio nella quantità eccessiva di artisti o pseudo-tali che in questi anni si sono cimentati in questo genere.
Insomma, tale problema è facilmente paragonabile a quello generale della musica di qualità.
Oggi tutti hanno un portatile con il quale poter far musica, di conseguenza abbiamo una miriade di lavori ignobili e diventa davvero difficile riuscire a scovare della musica realmente valida (che anni fa risaltava invece con maggiore facilità). Ecco,questo vale anche per il post-rock.
Gruppi come "Mogwai" o "Mono" ok, grazie a questa tendenza vendono e fanno più date che in passato, ma sempre a causa di ciò oggi dobbiamo subirci gentaglia come "Explosion in the Sky", "God is An Astronaut", "65 Days of Static" ecc., che prendono semplicemente gli elementi superficiali di questo genere e che di conseguenza finiscono col metterlo in cattiva luce.
Per fortuna, se si ha la pazienza e la volontà necessaria, col tempo si riescono a scovare band come i "This Will Destroy You", che non saranno di certo i paladini dell'originalità ma che sicuramente hanno sempre incarnato il genere rispettandone le basi e gli elementi necessari (spesso considerati secondari dalle band citate in precedenza) per poi riuscire a compiere quella che è da sempre l'unica vera missione del post-rock: Far pensare.
Probabilmente, i TWDY, hanno la piena consapevolezza di tutto ciò e per questo motivo hanno rilasciato un lavoro come "Moving on the Edges of Things" (il loro ultimo EP uscito meno di un mese fa e che precede l'uscita del prossimo album "Tunnel Blanket").
Forse dovranno affrontare critiche, domande e preoccupazioni da parte di chi li ha sempre seguiti e stimati, ma sicuramente avranno la sicurezza di aver fatto qualcosa sulla quale i detrattori del genere dovranno assolutamente riflettere.
"Moving on the Edges of Things" è infatti un EP composto soltanto da due tracce dove del post-rock, dal punto di vista stilistico, non c'è nemmeno l'ombra.
"Ritual" e "Woven Tears" sono infatti 2 esperimenti ambient composti da droni distorti che riportano in mente altri tentativi passati della band ("Villa del Refugio" su tutti) e che non lasciano spazio a nient'altro.
"Ritual" è costituito da delle armoniche basse che eseguono l'unica parte realmente suonata ma che col passare dei minuti (in totale 9:26) si lasciano coprire da degli strati di noise di diversa natura (distorsioni chitarristiche prima, effettistica ambient poi), per poi lasciare spazio ad alcuni feedback e pad in reverse, supportati da percussioni quasi sinfoniche che accompagnano il pezzo fino alla fine. Non è semplice assimilare questo pezzo ma mi sento di poter affermare che si tratta di qualcosa di veramente intenso e sicuramente valido.
"Woven Tears" è invece meno complicato (e onestamente meno interessante).
Qui troviamo un paesaggio sonoro di quasi cinque minuti a metà strada tra l'industrial e lo shoegaze elettronico.
I loop serrati di percussioni e i reverse in synchro con l'inizio delle battute, probabilmente, aprono la strada a quello che sarà l'atteso (a questo punto attesissimo) "Tunnel Blanket", che fin'ora è stato presentato dal singolo "Communal Blood", un pezzo a metà strada tra i vecchi e i "nuovi" This Will Destroy You.
Insomma, forse il post-rock, o almeno quello vero, non è tutto uguale.
Voto: 7


Edgar

Wednesday, 18 August 2010

RECENSIONE: "DAGGER PATHS" - FOREST SWORDS

Un giovane Inglese di nome Metthew Barnes ha fondato un progetto chiamato "Forest Swords", presentato recentemente con l'EP "Dagger Paths" (disponibile solo su Vinile o su iTunes).
Tale EP, senza troppi giri di parole, è probabilmente una delle migliori uscite discografiche dell'anno.
Capace di mischiare senza confusione le attuali tendenze di fascia undergorund, "Dagger Paths" è un lavoro difficilmente etichettabile.
Nelle 6 tracce, infatti, generalmente comanda un giro di chitarra twang riverberata che si lascia dolcemente contaminare da spazi dub, ingredienti del miglior trip-hop (per intenderci quello degli ultimi Portishead), droni dall'animo decisamente soul, percussioni tribe e alcuni sprazzi di r'n'b destrutturata.
Il risultato è strabiliante.
"Dagger Paths" ci porta lungo un percorso di musica ricca di interpolazioni mistiche e talvolta angoscianti (nel senso emozionale del termine, sia chiaro).
Dei sei brani presenti nell'EP, i più interessanti sono i tre che durano di più:
"Glory Gongs" miscela infatti ambientazioni ipnotiche interrotte da un ritmo black che si nasconde sotto l'affascinante leitmotiv chitarristico in stile "Twin Peaks" ed esalta non poco.
"Hoylake Mist" è un viaggio di Folk sperimentale che ci prende e ci trascina direttamente su un altro pianeta e le lezioni impartite dall'Inghilterra DIY più underground, in questo brano, sono più che udibili.
"Miarches", invece, è il classico pezzo che va spesso a braccetto con i grigi pomeriggi autunnali, dove un semplice pensiero poco controllabile si tramuta in ansia nel giro di pochi minuti (in questo caso 6:23).
Quello di "Forest Sword" è un disco rurale nel quale serpeggiano sample angoscianti, rumorismi inquietanti e lacerazioni elettriche.
E' un lavoro sicuramente in linea con le origini di Barnes, adatto per accompagnarci in lunghe passeggiate notturne in luoghi pagani e tenebrosi come ad esempio la vecchia Inghilterra dalla quale l'artista proviene.
Gran disco, soprattutto se pensiamo al fatto che non è nemmeno un album e che soprattutto è il primo lavoro di quella che oggi appare come una nuova promessa dell'underground.
Voto: 8,5


Edgar

Friday, 6 August 2010

RECENSIONE: "THE SUBURBS" - ARCADE FIRE


La musica, quella vera, ci spiazza sempre.
Gli Arcade Fire ci avevano abituati a dei lavori ad alto tasso emotivo, a delle atmosfere sognanti caratterizzate da una dose massiccia di musica da camera miscelata alla perfezione con gli arrangiamenti indie-rock/radical-chic che tanto sono andati di moda nell'ultima decade.
Questo mix, per certi versi geniale e per altri molto furbo, ha catturato in sei anni una quantità innumerevole di sostenitori in tutto il mondo.
Gli Arcade Fire piacciono più o meno a tutti:
Piacciono alle orecchie difficili e tendenzialmente snob, piacciono a coloro che non hanno nemmeno idea di quanti dischi abbiano fatto in totale e piacciono anche a tanti, troppi addetti ai lavori come David Bowie (con il quale hanno anche collaborato), Peter Gabriel (che ha inserito la loro "My Body Is A Cage" nel suo ultimo album di cover), Coldplay ecc.
Un rumore del genere lo riesci a creare soltanto se parti col piede giusto e gli Arcade Fire, questo, l'hanno fatto nel 2004.
"Funeral", il loro album d'esordio, è uno dei capolavori discografici degli ultimi anni.
Seguito dal meno raggiante ma comunque più che valido "Neon Bible" del 2007, ha proiettato la band in una dimensione planetaria che è riuscita a scavalcare le 2 ondate musicali degli ultimi anni (il post-rock/folk scandinavo di artisti come Sigur Ròs e l'indie-rock anglo/americano di gente come Franz Ferdinand & Co.) e che col tempo ha catturato sempre più sostenitori impazienti di vederli ancora all'opera con un nuovo album e soprattutto con un nuovo tour.
Dopo tre anni (precisamente il 2 Agosto) è quindi uscito "The Suburbs", il loro tezo album in studio.
L'attesa e le aspettative, come già detto, erano tante.
La voglia di recensire quest'album con parole come "epico", "geniale" o "impressionante" devo ammetterlo, c'era tutta.
Purtroppo, se si ha un minimo di senso critico, si deve riconoscere che con un album come "The Suburbs" questo non può accadere.
Se vogliamo andare oltre ai limiti che ci mette un "RollingStone" (che lo paragona addirittura ad "Ok Computer"), dobbiamo ammettere che un album così non ce l'aspettavamo sicuramente.
"The Suburbs" presenta al mondo la nuova evoluzione degli Arcade Fire.
Dimenticate le atmosfere fiabesche dei primi due album e prendete la consapevolezza del fatto che questo concept si basa sui temi delle periferie urbane e dei sobborghi cittadini nei quali tutti i componenti del gruppo sono cresciuti.
In "The Suburbs" si parla solo di questo e lo si fa eliminando del tutto i cori che avevano caratterizzato fino ad oggi le canzoni della band Canadese, sostituendoli con una dose massiccia di sintetizzatori. I ritmi sono più serrati e a volte raggiungono dimensioni punk/stoner e le atmosfere generali dell'album rimandano ad artisti come Neil Young, Bruce Springsteen, Elton John, New Order e Depeche Mode.
Insomma, ad un primo e generale ascolto potremmo parlare subito di passo falso ma appunto, si tratta di una band che alle spalle ha un'eredità di 2 album come "Funeral" e "Neon Bible", di conseguenza è il caso di ascoltare ed analizzare per bene traccia per traccia e di capire quali sono adesso le vere intenzioni di Butler e soci (dato che da oggi appaiono sicuramente molto meno chiare).
L'album comincia con l'omonima "The Suburbs", canzone tutto sommato gradevole che con chitarra acustica e piano non si discosta poi tanto dalle vecchie sonorità della band (tant'è vero che è stata scelta come primo singolo). Pezzo introduttivo, niente di più.
La seguente "Ready to Start", in realtà, non è assolutamente sconosciuta ai fans.
Infatti la band l'aveva già presentata in una versione bootleg su "vimeo" qualche mese fa.
Il pezzo inizialmente tira (grazie soprattutto ad un giro di basso ben studiato) ma col passare dei secondi comincia a stancare come probabilmente non ha mai fatto prima un pezzo degli Arcade Fire e anche 4:16, dopo il primo ascolto, risultano troppi. Eccessivo.
"Modern Man" è una canzone che si descrive con pochi esempi: sonorità alla Moby, struttura alla Bowie e voce equalizzata alla Dave Grohl. Insomma, il primo esempio palese di come in questo album, gli Arcade Fire, prendano spunto da tutti e nessuno. Canzone da prendere in considerazione se si viaggia in macchina al tramonto. Per il resto la considero trascurabile.
Il quarto pezzo "Rococo", a mio avviso, è uno dei più belli di tutto il disco.
Non so se questa affermazione sia dovuta alla mia passione per la musica barocca (spesso nascosta), all'oggettiva validità del pezzo o alla presenza (seppur timida) di cori o di altri elementi dei vecchi Arcade Fire che già, dopo neanche quattro canzoni, cominciano a mancarmi parecchio. In ogni caso si tratta senza alcun dubbio di un esperimento ben riuscito.
"Empty Room" ci restituisce la voce della sempre dolce Régine Chassagne e solo per questo mi sento di valutarlo positivamente. Poi le sonorità un pò shoegaze danno al pezzo una dimensione davvero gradevole.
"City With No Children" continua invece il processo descrittivo di questo concept album.
Bel testo. Per quanto riguarda la musica, invece, qui ce n'è davvero poca. Inconsistente.
"Half Light 1" ed "Half Light 2" sono un momento di sperimentazione assoluta.
La prima delle due tracce infatti è un viaggio molto retrò che in un primo tempo può spiazzare, ma è solo quando ascoltiamo la seconda parte che ci rendiamo conto che in "The Suburbs", gli Arcade Fire, probabilmente hanno fatto il loro lavoro senza preoccuparsi più di tanto della reazione del mondo intero.
"Half Light 2" è infatti un pezzo alla New Order con tanto di cassa in 4, tappetoni di synth analogici e strutture decisamente 80's.
Sia chiaro, la New Wave e la Synth-POP a me sono sempre piaciute ma questo esperimento non prende assolutamente.
Il pezzo in questione, più che somigliare alle vecchie glorie di quel periodo, somiglia di più agli orrori proposti negli ultimi anni da quegli artisti che volevano ripercorrere determinate sonorità ma che in realtà hanno soltanto registrato i pezzi peggiori della propria carriera (come ad esempio ha fatto Moby nell'album "HOTEL"). Incomprensibile.
Per quanto riguarda "Suburban War" vale lo stesso discorso fatto per "City With No Children". Pezzo poco consistente che magari prenderà più forma dal vivo.
"Wasted Hours" invece è un pezzo molto bello. Così bello che starebbe bene all'interno di un "Funeral" o di un "Neon Bible". Probabilmente, quando hanno composto questa canzone, avevano un pò di nostalgia di se stessi. Comprensibile.
"Deep Blue" e "We Used To Wait" stupiscono ancora tra strutture alla Depeche Mode e alla Neil Young, ma la vera sorpresa dell'album arriva con "Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)".
Questo pezzo viene preceduto da "Sprawl (Flatland)", 2:54 di inutilità totale, per poi sfociare in qualcosa di totalmente assurdo.
Con "Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)" ci troviamo davanti ad un pezzo in pieno stile ABBA.
Groove sintetico, basso pulsante e voce di Régine Chassagne a metà strada tra quella di Agnetha Fältskog e quella di una cantante a caso delle sigle dei cartoni animati di quei tempi.
Sono tre giorni che ascolto questo pezzo e non riesco ancora a capire se si tratta di uno scivolone colossale o di un lampo di genio della band Canadese che ci aveva abitutato ad atmosfere di tutt'altro tipo.
Una cosa è certa, gli Arcade Fire stanno vivendo una metamorfosi musicale quasi incomprensibile.
"The Suburbs" non è un brutto album, ma ridimensiona l'entusiasmo scaturito negli ultimi sei anni nei confronti della band Canadese e ci spiazza pesantemente.
Forse neanche loro sanno bene dove vogliono andare a parare.
Forse si stanno facendo semplicemente trascinare dall'ispirazione e dalla voglia di fare.
Forse, facendo uscire questo disco, hanno solo voluto ridimensionare la soglia del rumore attorno al loro nome per preparare qualcosa di veramente poderoso per i prossimi anni.
Del resto, le ultime frasi presenti nell'ultima "The Suburbs (continued)", lasciano viva ogni speranza:
"If I could have it back / All the time that we wasted / I’d only waste it again/ Sometimes I can’t believe it, I’m moving past the feeling."
Poca consistenza musicale nelle canzoni, tanto coraggio.
Trattiamo "The Suburbs" come "The Suburbs" ha trattato noi.
Voto: 6



Edgar